Anita D’Orazio è pittrice che subito dichiara la sua filosofia: parte dagli stimoli istintuali e poi li sottopone ad ordinamenti razionali; per lei creare è vivere o, meglio ancora, dare un senso rivelatore alla vita. Ed è quindi la qualità e la scelta coraggiosa dei pensieri guida, “consacrati” in prima battuta ma poi aperti ad ogni dilatazione conoscitiva e sperimentale, di Tapiès ed un certo Burri mi parlava, “archeologici” ma sacrosantamente e con giustezza avanguardisti, semplici ed estremi ad un tempo. I suoi scopi sono , tra gli altri, riappropriarsi dei segni obsoleti, frugare sotto i muri scrostati per far riemergere tracce delle creatività pregresse, soprattutto ripopolare – con squisita temperanza – l’accogliente e materno bianco.Nei grandi teli si possono leggere insieme la bellezza primaria dell’intonaco grezzo , i misteriosi segni- parole immagini- della civiltà giapponese, rilievi a sabbia ed altri inconsueti interventi più che essenziali, textures che ricordano la storia underground dell’uomo, ma ciò che mi piace sottolineare è che nella sua dimensione espressiva – mai replicata ed uniforme – vi è posto per le associazioni cosiddette elementari e difficili tra spazi e segni, per rapporti inediti fra interno ed esterno ( al modulo finito e alla sua progettazione in itinere), per le consonanze – perché no, anche liriche – fra oggetti scabri e soggetti più significativi della sua azione creativa.